Sui ‘Cavalieri del rischio’: questi ragazzi meritano rispetto (sempre)
Dietro ogni pilota che ‘lotta’ per costruirsi una carriera ci sono sacrifici enormi, non solo finanziari, ma anche psicologici, mentali, fisici. Spesso a tutto questo si pensa solo quando accadono le tragedie, soprattutto quelle evitabili come nel caso di Jules Bianchi, morto per essersi trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato e con la direzione di gara sbagliata. Contro una ruspa…
Prima di parlare (o scrivere, fa lo stesso) conta fino a dieci. Cosi mi hanno insegnato. Ma stavolta non ci riesco. Anzi, non voglio farlo. Quindi scrivo di getto. E pazienza se qualcuno disapprovverà o si sentirà offeso.
Il dispiacere per un ragazzo di 25 anni che non c’è più è grande. Come l’insofferenza verso tutta l’ipocrisia e la retorica che si accompagna in queste occasioni, condite da lacrime di coccodrillo. Sui giornali, in tv, alla radio, sui social network è un susseguirsi di hashtag, frasi di circostanza, apologie postume e banalità.
Per carità, non mi riferisco al dolore vero e sincero di chi ha conosciuto (di persona o “da lontano”) Jules ragazzo e pilota. Ma quanti tra quelli che pontificano dagli “speciali” succedutisi nelle ultime ore e giorni sapevano davvero chi fosse Jules Bianchi prima della sua scomparsa o del suo incidente?
Ma si sa, il motorsport fa notizia e diventa da prima pagina soprattutto (solo?) in caso di tragedie e in quel caso tutti diventano esperti (ricordo ancora Santoro imbastire uno speciale e straparlare alla morte di Ayrton Senna).
La cosa bella (anzi, brutta) è che dopo episodi di questo genere è tutto un trionfo di ricordi, di rimpianti, di “io lo conoscevo…” o “era davvero un bravo ragazzo…” oppure “Jules insegna agli angeli a guidare…” e via discorrendo. Ma Jules e, in generale, tutti questi ragazzi che scendono in pista, meritano rispetto prima e sempre.
Queste apologie postume sono inutili! Servono a qualcosa ora queste lacrime di coccodrillo, quando prima abbiamo dovuto sentire, magari dalle stesse fonti, sciocchezze assurde come “queste F1 sono facilissime da guidare…” o che “la F1 ora è una playstation…” oppure che “bisogna reintrodurre elementi di pericolo nelle corse perché ora sono diventate troppo sicure…”?
Ripeto, ci vuole rispetto. Rispetto per questi ragazzi che rischiano la vita ogni volta che scendono in pista. Sì, perché qualcuno (magari troppo impegnato a spiegarci che i “veri uomini” sono solo quelli che corrono all’isola di Man o a Macao o a suonarsele di santa ragione a sportellate o a mani nude ai box)
lo aveva dimenticato.
Le corse oggi sono molto, ma molto più sicure di quello che erano in passato, questo è pacifico.
Ma la sicurezza “totale” è semplicemente un’utopia. Non esiste o non potrà mai esistere.
Tragedie come quelle di Bianchi, De Villota, Surtees (Henry), Wheldon, Simoncelli, Tomizawa e tante altre ce lo ricordano in modo drammatico.
Se gli incidenti e perfino le tragedie sono un elemento intrinseco (e in un certo senso inevitabile) del motorsport, questo non significa però che questi ragazzi vadano mandati allo sbaraglio.
Da episodi come questo vanno tratte lezioni per il futuro, perché sulla sicurezza non si scherza, né si deve transigere e quando ci sono degli errori vanno evidenziati e perseguiti.
Per Jules Bianchi la FIA si è autoassolta con un’inchiesta in cui una commissione (di cui più di qualcuno ha contestato la terzietà) ha giudicato sulla base di un rapporto stilato dagli stessi soggetti di cui si doveva giudicare l’operato: indagato e inquirente nei fatti coincidevano. Una storia che ha lasciato dubbi e perplessità e ha posto in modo drammatico domande cui si dovrebbe rispondere (a maggior ragione oggi).
Quelle stesse domande che ci facciamo ormai da mesi e che ancora oggi sono senza risposta.
© RIPRODUZIONE RISERVATA – THE WASTEGATE
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