Stati Disuniti d’Europa: a 60 anni dai Trattati di Roma aleggia lo spettro del fallimento
Alla vigilia della celebrazione del Sessantesimo Anniversario della firma dei Trattati istitutivi della Comunita Europea e dell’Euratom, la minaccia terroristica e quella di violente manifestazioni di piazza rendono evidente il vulnus delle istituzioni europee, impelagate in un funzionalismo soffocante che non distingue competenze e ambiti di esercizio della sovranità tra livello statale e livello comune (o federale). Serve un guizzo creativo o il fallimento travolgerà tutti
Domani, 25 Marzo, Roma ospiterà le celebrazioni del 60° Anniversario della sottoscrizione dei Trattati di Roma, istitutivi della Comunità Economica Europea e della Comunità Europea dell’Energia Atomica, ma lo scenario che si presenterà non sarà quello della festa, piuttosto dello ‘stato d’assedio’ contro la minaccia che il mondo libero contemporaneo deve affrontare: il jihadismo imperialista islamico. Un nemico viscido e subdolo, che ha già invaso l’Occidente attraverso l’arma strategica più antica del mondo: quella demografica.
Al di là dei circoli della retorica corrente, occorre fare una riflessione scientifica sulla crisi dell’europeismo e del processo avviato il 9 Maggio 1950 dal ministro degli Esteri francese Robert Schumann, poi concretizzato il 18 Aprile 1951 col Trattato di Parigi, istitutivo della CECA; proseguito con la Conferenza di Messina dell’1-3 Giugno 1955, preparatorio dei Trattati di Roma del 25 Marzo 1957; poi continuato con altre tappe fino al Trattato di Maastricht del 7 Febbraio 1992, istitutivo dell’Unione Europea, e al Trattato di Lisbona del 13 Dicembre 2007, che ha modificato l’assetto istituzionale di una organizzazione internazionale.
Lo sottolineiamo perché l’Unione Europea non è una Unione Confederale, malgrado la dottrina prevalente ne inquadri il funzionamento in un ambito più che confederale e pre-federale; eppure, l’UE rimane un’organizzazione tra nazioni formalmente sovrane e indipendenti, ma di fatto dipendenti tra loro in termini giuridici, economici, sociali e monetari. Pur non avendo una Costituzione, l’UE ha ormai varcato la soglia confederale, ma non ha ancora un paradigma federale retto da una Costituzione comune.
Non rientra nell’economia di questo articolo ripercorrere i passaggi storici che hanno condotto fino a oggi il più antidemocratico sistema democratico che la Storia dell’Occidente politico conosca, ma è di fondamentale importanza rilevare cosa oggi necessiti per affrontare tutti insieme le sfide della globalizzazione contemporanea, anzitutto quella perpetrata dal jihadismo imperialista islamico.
Sostenitori e oppositori dell’integrazione europea oggi sono concordi solo su un punto: le istituzioni europee oggi non funzionano più e non agiscono in coerenza con gli interessi di tutti i cittadini europei.
Al funzionalismo che ha retto il processo di integrazione europea dall’inizio fino al Trattato di Nizza del 2001 si è sostituito una sorta di egemonismo delle Istituzioni, dietro cui si nascondono gli Stati più forti (sotto il profilo politico) capaci di organizzare il consenso in seno al Consiglio Europeo e alla Commissione, organo consociativo e neanche lontanamente un governo comune. Germania e Francia in primis.
In materia di sicurezza e difesa, quali conseguenze ha l’inceppamento dell’evoluzione delle istituzioni europee? Se i Founding Fathers consideravano inevitabile il ricorso al metodo funzionalista per abbattere la diffidenza tra gli Stati membri (e superare almeno gli ultimi 200 anni di guerre fratricide in Europa) e per preparare la svolta federale, cosa comporta il mancato avvio di questa fase, approdo finale della Costruzione Europea?
Davvero è pensabile approntare un ‘esercito europeo’ – quale forma di cooperazione rafforzata – senza che il comando di questa Forza Militare Comune sia detenuto da un organo istituzionale legittimato dal voto democratico diretto dei cittadini europei, in un quadro giuridico definito in modo incontrovertibile?
Tra i cosiddetti ‘sovranisti’ (orribile neologismo che è vuoto di per sé), critici del processo di integrazione europea, serpeggia l’idea errata che gli Stati nazionali possano essere attori indipendenti e sovrani del sistema internazionale, esercitando prerogative e difendendo interessi e valori in modo esclusivo.
Tra gli europeisti convinti e acritici si fa un errore speculare, diremmo uguale in direzione, ma con verso differente (per usare una metafora mutuata dalla fisica): la fiducia incondizionata nel funzionamento salvifico delle istituzioni ‘comunitarie’ (altro termine orribile, oggi), considerate il baluardo del benessere dei cittadini europei. Al netto delle diverse nuance, la differenza è del tutto irrilevante. Sbagliano i primi e pure i secondi.
Nessuno di loro sa rispondere a una semplice domanda: lo Stato nazionale europeo è oggi in grado di agire per mantenere la sicurezza interna e la difesa dei confini nazionali in modo indipendente ed esclusivo? Ha la capacità di agire sul piano internazionale e diplomatico?
La risposta è no: nessuno Stato europeo ha capacità di agire sul piano internazionale e di assicurare la sicurezza interna e la difesa esterna del proprio spazio nazionale. Se non esistesse la NATO – e gli Stati Uniti non spendessero il triplo in percentuale rispetto al PIL – gli Stati membri dell’UE sarebbero in un mare di guai.
Che cosa c’entra questa riflessione con la ricorrenza di sabato 25 Marzo? C’entra per un preciso riferimento storico che può essere richiamato in senso ‘vichiano’: la Storia si ripete (ma tocca ai politici vestirsi da statisti, abbandonando il costume di guitti dell’avanspettacolo politico).
Tra la primavera e l’estate del 1787, le notizie di una rivolta fiscale promossa da piccoli proprietari terrieri erano pervenute ai delegati dei 13 Stati membri degli Stati Uniti, riuniti a Philadelphia per cercare di comprendere se e come approfondire l’integrazione comune e superare gli Articoli di Confederazione. La ‘Rivolta di Shays’ colpiva un tema centrale del dibattito nordamericano, perché il livello di esazione fiscale era cresciuto a dismisura per far fronte ai debiti di guerra sottoscritti dagli Stati durante la lotta per l’Indipendenza dalla madrepatria britannica, rendendo ogni attività economica difficile da sostenere (è un tema attuale?).
La protesta perse vigore ben presto, ma tra i delegati convenuti a Philadelphia cominciò a serpeggiare il dubbio sulla reale capacità dell’Unione ad affrontare emergenze interne e attacchi dall’esterno. Così cominciò a emergere l’esigenza di superare gli Articoli di Confederazione (una specie di Trattato di Lisbona odierno) e di cominciare a pensare alla redazione di una Costituzione federale. Il seguito è noto: con il Compromesso del Connecticut si trovò il giusto punto medio per realizzare la ‘magia’ istituzionale della condivisione della sovranità, tra Stati membri e Governo federale.
Il processo di integrazione europea partì nel 1950 guardando espressamente all’esperienza nordamericana e agli esiti della Convenzione di Philadelphia. Nella mente dei Padri Fondatori, il funzionalismo doveva dunque preparare il terreno al federalismo. Un processo che ha dato ottimi risultati, perché anzitutto ha eliminato la guerra dal novero delle possibilità politiche tra gli Stati europei, spostando la ‘battaglia’ sul piano dei diritti e delle conquiste sociali sempre più diffuse.
La guerra però può tornare e la pace non è un dato acquisito per l’eternità: serve impegno costruttivo per rendere ancor più difficile la guerra tra popoli europei. Serve un’elevazione dell’integrazione e una razionalizzazione costituzionale, perché quando si parla di sicurezza comune e difesa è indispensabile sapere chi comanda e con quale legittimità.
Un quadro del genere può essere garantito solo da una Legge Fondamentale che distingua le competenze degli Stati da quelle del Governo comune e indichi le responsabilità e le capacità da mettere in campo per difendere tutta la popolazione dell’Unione.
Una decisione politica per la quale serve un meccanismo politico e giuridico certo: una Costituzione.
Domani a Roma si celebra una data importante, ma il trend autodistruttivo è innescato e l’unità europea è a rischio a causa dell’emergere di irrazionalità trasversali, radicate in una classe dirigente ignorante (soprattutto in Storia). Serve un guizzo creativo che chiami il popolo a ragionare sulle capacità degli Stati e su un progetto che serva a riunire le forze, a fondere i destini; e a partecipare con coscienza alla costruzione di uno Stato federale comune, che assicuri anzitutto il benessere dei propri cittadini.
Il fallimento è dietro l’angolo e l’assenza del Primo Ministro britannico a Roma è solo un aspetto di questo fallimento, che – se portato a compimento – non porterà nulla di buono a tutti gli europei. A 60 anni dai Trattati di Roma, gli Stati europei sembrano più disuniti che mai.
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